Pasquale Amato - Documenti

 

 

PASQUALE AMATO

Tratto dal volume di William Armstrong - pp. 166 -181.

"The Romantic World of Music"

New York, E. P. Dutton & Company, 1922

 

Traduzione di Gian Paolo Nardoianni (maggio 2011)

 

La carriera avventurosa di cantante ha portato Pasquale Amato lontano: attraverso tutta l'Italia, in Germania, a Parigi, a Londra, in Brasile, in Argentina, in Cile e finalmente negli Stati Uniti, dove sia l'uomo che la sua nobile voce sono stati molto amati. La sua capacità di adattamento lo ha reso uno di noi, ed egli parla la nostra lingua con una padronanza di lessico posseduta da pochi americani. Questa sua caratteristica capacità di adattamento gli ha accattivato le simpatie dei pescatori di Cesenatico, sull' Adriatico, dove vive tra una stagione operistica e l'altra.

 

Cesenatico è un affascinante angolo del Vecchio Mondo: laddove finisce il villaggio, comincia la colonia di ville che estendono senza interruzione i loro giardini colmi di fiori lungo una splendida spiaggia. I tremila abitanti del villaggio vivono dei prodotti del mare che, quando la marea è alta, avanza lentamente sino al piano stradale. Le vele delle loro imbarcazioni - rosse, arancione e biancogialle - fanno parte del panorama che si vede dalla loggia della villa di Amato.

Per questa gente semplice, il grande baritono è, al tempo stesso, un gran personaggio e un amico. Con la sporta di vimini al braccio, va a far la spesa da loro nella piazza, fermandosi a chiacchierare davanti a questa e a quella bancarella, poiché egli non è solo un cliente, ma un amico intimo.

Accompagnandolo in tali occasioni, mi sono goduto la scena: piena di vita, animata, con gente che gesticolava per un nonnulla; i cumuli di pesce - argento screziato e oro - luccicavano al sole; l'assortimento ordinato di verdure e ortaggi era disposto secondo un complesso schema cromatico, come se qualche artista dovesse di lì a poco dipingerli in un suo quadro.

A poca distanza giaceva il canale, vuoto dall'alba fino a scuro, quando la flotta di pescherecci toccava terra, serrava le vele e si muoveva pigramente su e giù per tutta la notte. Nella caligine dell'alba, dapprima rosa, poi dorata quando il sole la soffondeva, le barche partivano nuovamente per la pesca della giornata.

Quando l'Italia entrò in guerra, i sottomarini e le mine resero impossibile la pesca nell' Adriatico, e giorni tristi si abbatterono su Cesenatico. Ricordando il loro amico Amato che cantava al Metropolitan, dove, secondo i calcoli della gente del posto, egli guadagnava ogni sera una nuova fortuna, tutti, l'uno dopo l'altro, gli scrissero chiedendogli aiuto. Disperato per il tentativo di rispondere individualmente a tremila diverse richieste, egli inviò una somma di denaro al sindaco perché la distribuisse. Per accrescerla, rese nel frattempo semplicissimo il menu della sua famiglia a New York.

 

Nei giorni deliziosi che trascorsi nella villa di Amato, la guerra era lontana dai pensieri: ma anche i tempi di pace non erano privi di terrori. Nel pomeriggio in cui giunsi, la cuoca se ne era andata. Un'altra, che aveva promesso di venire puntualmente, comunicò per telegramma di aver mutato i suoi progetti. La villa e la dépendance erano affollati da parenti e amici. La signora Amato era ammalata. Sgomentato dalla avvilente prospettiva, Amato svenne. Ne fui primamente informato quando il famoso buffo Pini-Corsi arrivò correndo, stravolto e in maniche di camicia.

 

In quel momento cruciale la signora Amato, la cui principale preoccupazione è il benessere del marito, parve aver riflettuto sul da farsi. Si levò dal letto e ordinò che si preparasse l'automobile. Subito dopo, accompagnata da suo padre e dal figlio maggiore, Spartaco, partì alla volta di Firenze attraverso le montagne, alla ricerca di una cuoca. Ci disse che sarebbe ritornata in giornata [Nota del traduttore: il testo inglese: "next day" "il giorno successivo" pare incongruente col resto della narrazione] L'espressione del suo sguardo ci dette piena certezza che assieme a lei avrebbe condotto una cuoca. Nel frattempo, tre automobili colme ci portarono a banchettare nel piccolo albergo del posto.

 

L'ora fissata dalla signora Amato per il ritorno a casa con la sua comitiva arrivò e passò; trascorsero lentamente altre due ore, e ancora non erano giunti. Pervaso dal presentimento di un incidente, Amato, pallido per l'ansia, divideva il suo tempo tra il telefono, col quale cercava di rintracciarli e corse folli in bicicletta lungo la strada maestra su cui solevano viaggiare. Era domenica, il giorno della settimana in cui è più difficile sopportare l'ansia dell'attesa. Eravamo tutti in apprensione. Sul più bello, la cuoca che aveva cambiato idea, e che evidentemente la aveva cambiata per una seconda volta, fece la sua comparsa.

Alla fine, una grande nube di polvere si levò in lontananza preannunciando l'avvicinarsi della signora Amato. Con una superba manovra da virtuoso, l'autista, incurante dei limiti di velocità, pose termine al viaggio, mentre Amato, salito sul predellino, gridava entusiasticamente. " E' venuta la cuoca!"

"La cuoca l'ho portata io" annunciò la signora Amato con aria distinta e dignitosa, mentre posava il piede a terra. E davvero l'aveva portata, perché l'altra cuoca io non la rividi mai più.

Ho avuto il privilegio di vedere Amato sulla scena, nelle sue più grandi interpretazioni. Lontano dalla scena, nella sua villa, ho avuto il privilegio di vederlo in un altro ruolo. A colazione, di buon mattino, con suo padre e sua madre alla sua destra e noi ospiti seduti alla lunga tavola, Amato tagliava il pane da una enorme pagnotta e versava il caffè per ciascuno di noi, l'uno dopo l'altro, cominciando a mangiare solo quando tutti gli altri erano stati serviti.

Vagabondare a caso per l'Italia significa portarsi dietro ricordi indelebili della sua bellezza; vivere in casa con una famiglia italiana significa scoprire nei legami che stringono insieme le vite, qualcosa di ancor più bello. Circola in essa un'aria patriarcale e, oltre a questa, un' atmosfera di perpetua giovinezza. Gli italiani si sposano presto e vivono a lungo. Anche Amato si è sposato a Trieste a ventitré anni. Il commento di suo padre fu:"Prima avevo solo un figlio, adesso ne ho due".

Per un caso singolare il padre si era sposato alla stessa età; ed ora, a cinquantadue anni, era da gran tempo nonno. Le giovani vite si erano sovrapposte alla sua in modo tale che non c'era divario d'anni che rendesse una generazione inavvicinabile dall'altra.

Pasquale Amato ha due fratelli: uno sacerdote, l'altro ufficiale dell'esercito italiano. Il sacerdote, che venne in visita alla villa durante la mia permanenza in essa, ha una bella voce di tenore e canta da solista nella Cattedrale di Napoli. Alto, agile, probabilmente come cantante d'opera avrebbe eguagliato il successo di Pasquale, se non avesse scelto una strada più tranquilla, nella quale sembra essere perfettamente felice.

Quell' estate, a Cesenatico, si tennero un concerto ed un ballo, e gli ospiti di Amato vi furono invitati. Il festoso evento si tenne in un teatro di proporzioni tali che avrebbe potuto costituire il vanto di una grande città e nel quale, in inverno, i pescatori rappresentavano commedie e tragedie per proprio divertimento.

 

Quando arrivammo, un comitato accompagnò Amato al palco di proscenio che ci era stato riservato e lì, con premura tipicamente italiana, erano stati disposti mazzolini di fiori per le signore e, per gli uomini, fiori da mettere al bavero. Il resto della compagnia rincasò a l'una dopo mezzanotte, ma Amato rimase fino all'alba con i gli abitanti del villaggio suoi vicini di casa. Ecco un aspetto meraviglioso della vita italiana: c'è sempre tempo per la vita di famiglia, e sempre tempo per gli amici. La sua abituale disponibilità faceva sì che Amato si attardasse volentieri tra quei suoi semplici amici come se non esistesse la vita del teatro d'opera, col suo orizzonte egocentrico.

 

E solo una volta, a parte l'episodio dello svenimento, un momento di instabilità emotiva penetrò nella tranquillità della dimora di Amato. Un giorno, durante il pranzo, un organetto di Barberia cominciò a suonare nella strada. Suonò dall'inizio alla fine un' Ave Maria tratta da qualche opera oggi dimenticata. Poi all'improvviso il suonatore ambulante si precipitò tra noi a fare la questua. Incollerito da tale comportamento, Amato gli ordinò di andarsene. Egli lo fece, ma prima ci fu un lungo litigio. Una volta fuori, al sicuro, cominciò a suonare di nuovo la stessa Ave Maria. La suonò per un'ora sana. Corromperlo con danaro perché andasse via, equivaleva a farlo tornare il giorno dopo. Potete figurarvi nella fantasia la scenata che provocò.

La villetta di Pini-Corsi era nei pressi di quella di Amato, Pini-Corsi che ricordiamo così gaio e spiritoso nel Don Pasquale e nel Barbiere di Siviglia al Metropolitan. Dal punto di vista architettonico, quella sua villa avrebbe potuto figurare in un'opera comica. Al secondo piano sporgeva un minuscolo balcone. Lassù Pini-Corsi aveva deciso di radersi tutti i giorni, in pubblico, fermandosi di tanto in tanto, col volto nascosto dalla schiuma, per scambiare cordialmente quattro chiacchiere con qualche collega dell'ambiente operistico che passava di lì, e che aveva visto riflesso nel suo specchio.

Pittori, attori e alcuni cantanti d'opera abitavano la colonia di ville di Cesenatico. Questi ultimi cantarono per noi scene dell'Otello o, forse, del Trovatore, in costume da bagno, sulla spiaggia, al frusciante accompagnamento dell' Adriatico. C'erano lì anche altre cose da vedere: io, almeno, le vidi, una domenica mattina.

Il mio buon amico Giuseppe Campanari, che ricordiamo con affetto come cantante del Metropolitan, non amava le visite ai luoghi d'interesse turistico. Durante le tournées, quando i suoi colleghi partivano per andare a vedere le bellezze di una città sconosciuta, egli rimaneva in camera e si limitava a dire: "Portatemi qualche fotografia dei posti che vedrete, e ne saprò ogni cosa." Pur vivendo in tale isolamento, pare tuttavia che Campanari vedesse molto. Infatti, mi parlò di una piccola usanza di Cesenatico molto prima che io la notassi.

Quella domenica mattina, poiché non vidi nessuno nella villa, me ne uscii da solo. Sulla spiaggia che si stendeva davanti a me c'era un assembramento. Compresi immediatamente che i cesenaticesi erano venuti a fare il loro bagno settimanale. Le cabine, essendo proprietà privata, erano chiuse a chiave. Quella brava gente usava pertanto l'ombra delle cabine come spogliatoio, ciascuna famiglia all'ombra di una cabina. Correvano velocemente incontro ad un' onda che avanzava, e quando la raggiungevano si liberavano dell 'ultimo indumento. Dopo, lo svolazzante capo d'abbigliamento veniva indossato di nuovo per una passeggiata sulla spiaggia: l'indumento preferito dagli uomini era una semplice camicia a strisce.

La vita ritirata che si conduceva a Cesenatico piaceva molto a Campanari. La sua famiglia, essendo intima di quella di Amato, era solita recarsi a Cesenatico per l'estate. Per Giuseppe ­- per qualche ragione - era più facile arrivare in quel posto che partirne. Il treno che partiva da Rimini (la stazione ferroviaria più vicina) e che poi consentiva di proseguire il viaggio per Bologna, arrivava in genere troppo tardi per la coincidenza. Avendo bisogno di denaro da una banca di Bologna, Campanari, dopo tre tentativi, finalmente vi arrivò. Corse a precipizio in un taxi verso la banca, e la trovò chiusa. "Cosa è oggi ?" chiese esagitato ad un passante.

 

"Oggi" -gli fece eco l'uomo, irritato da tanta crassa ignoranza- "oggi è il giorno che ricorre una volta ogni secolo: il centenario del nostro sublime Cavour". Ma Campanari doveva esser divenuto assai esperto in fatto di sorprese, durante i suoi brevi viaggi. Gliene erano capitate molte. Alcune di queste se le era -per così dire - fatte da sé. Un episodio di questo genere accadde quando era stato scritturato per cantare a casa di Mr.H. McKay Twombly, la cui moglie, si ricorderà, era nata Vanderblit. Prima di partire, Campanari chiese all'impresario: "Dove mangiamo, io e gli altri cantanti?" "Da Twombly, naturalmente", gli fu risposto.

Campanari ringraziò educatamente e mandò questo telegramma: "Stasera per cena mangerò due polli arrosto, teneri, e una bottiglia di buon vino rosso". Era indirizzato semplicemente "Alla Trattoria Twombly".

La comitiva, al suo giungere, si vide venire incontro valletti in livrea e un cocchiere con carrozza a cavalli. Alquanto sorpreso alla vista di tanto lusso offerto da un alberghetto di campagna, Campanari fu ancor più sorpreso quando giunse non alla Trattoria Twombly, ma nella casa di Mr. Twombly.

Il suo amabile ospite, ritenendola una bizzarria del temperamento artistico, stette allo scherzo. Quando tutti furono seduti a tavola, un valletto portò un grande vassoio d'argento. Sopra, c'erano due polli teneri e una bottiglia di buon vino rosso. '''Mangia questi - chiese Mr. Twombly - o mangia il pranzo della casa ?"

Molte esperienze legate alla professione di cantante - tanto strane quanto pittoresche­venivano narrate sulla loggia della villa di Amato, mente le stelle brillavano nella notte estiva e il silenzio profondo era interrotto solo dal suono delle onde sulla spiaggia o da qualche canto indistinto che proveniva da qualche villa lungo la strada. Il repertorio di ricordi operistici di Pasquale Amato era ricco.

Assai presto nella sua carriera di cantante, e subito dopo il suo debutto al Teatro Bellini di Napoli nel ruolo di Gérmont nella Traviata, Amato cantò molto nei piccoli teatri d'Italia. E li accaddero cose tali da superare qualunque immaginazione. Il suo ingresso nella vita operistica avvenne in modo del tutto accidentale, giacché Amato era stato destinato alla carriera in marina. Mentre si preparava per gli esami, ebbe un litigio con un professore e lo atterrò con un pugno. Per ordine del Ministero della Guerra, questo gesto gli precluse l'ingresso nelle scuole dello Stato. Parlando simbolicamente, con quel colpo egli bussò alla porta dell' arte.

Subito dopo il debutto, il giovane baritono fu ingaggiato dall'Abate Perosi, direttore del coro della Cappella Sistina, perché cantasse nel suo oratorio La resurrezione di Lazzaro. Quasi contemporaneamente, gli giunse per telegramma un'offerta da Lecce, per cantare il Conte di Luna nel Trovatore. Le romanze le conosceva ad orecchio, i pezzi d'assieme gli erano affatto sconosciuti.

Terminate le rappresentazioni dell' oratorio di Perosi, il cantante si precipitò da Lombardi, che in seguito divenne famoso come maestro di canto, ma che allora faceva il direttore d'orchestra. "Devo cantare la parte del Conte di Luna tra cinque giorni" - annunciò Amato - "e non la conosco". Senza perder tempo in parole, si misero al lavoro.

 

Ci dettero dentro notte e giorno. Due giorni prima del debutto si recarono a Lecce, e Amato studiò durante il viaggio. Appena giunto, dovette andare a teatro per le prove. Fingendo disinvolta sicurezza, disse: "Canterò Il balen ". E lo cantò, con le ginocchia che gli tremavano per paura che gli chiedessero di cantare altri brani dell' opera.

La sua voce mandò in estasi l'impresario, che sembrava pronto a qualunque concessione. Perciò Amato prontamente gli chiese: "Vuol essere tanto gentile da scusarmi ? Sono stanco". Il che era verissimo. L'impresario in persona accompagnò il suo nuovo "divo" alla porta d'ingresso al palcoscenico. Amato si precipitò all'albergo e cercò Lombardi. Delle ventiquattro ore che seguirono, il baritono raccontava: "Non vidi nulla, fuorché lo spartito. La mia testa era un vulcano."

Lombardi partì per andare a dirigere altrove e Amato andò avanti fino alla prova generale. Fatta eccezione per i momenti di panico, tutto andò bene. La sera della prima, tuttavia, prima che il sipario si levasse, sorse un altro problema. Il tenore che doveva cantare Manrico si era offeso con l'impresario. Se ne andò, limitandosi a salutare l'inserviente di scena che gli trasportava fuori il baule di costumi. A lui aveva detto: "Vado a fare un viaggetto".

Prima che il treno uscisse sbuffando dalla stazione di Lecce, non solo la compagnia d'opera, ma tutta la città sapeva che Manrico se l'era svignata. Quando l'impresario riuscì in qualche modo a calmarsi, telegrafò ad uno dei molti Manrico che, nell'agitazione, gli venivano raccomandati. E un Manrico arrivò. La sua aria altezzosa prometteva grandi cose, ma non certo ad Amato, non appena questi ne ebbe udite le prime parole: "Oggi non canterò alla prova, sono stanco". Per Amato, cantare nel suo stato di insicurezza, con un Manrico che non conosceva la musica, era minaccia di catastrofe. Il che si verificò puntualmente durante la recita.

Il nuovo Manrico non aveva nemmeno un capo del costume necessario per la parte. E naturalmente non aveva mai cantato prima il Trovatore. Questa fatale rivelazione giunse all'ultimo momento, quando dovette farsi prestare tutto, dall'elmo in giù, da un corista.

Svaporata l'arroganza, Manrico stava in piedi tra le quinte, tremando. Durante il primo terzetto l'elmo, troppo grande per lui, gli scivolò su un occhio, il che fece ridacchiare il pubblico. Durante il secondo atto la paura, divenuta più grande, cominciò a privarlo della voce. Talvolta cantava le note giuste, più spesso ne inventava altre. Dal canto suo, Amato lottava con tutte le sue forze per non cedere terreno. Le "legature" e le note puntate di uno spartito su cui si era completamente concentrato gli danzavano davanti agli occhi. Tra un atto e l'altro, ripassava le note, per rinfrescare la memoria, mettendo tutto il suo impegno per cantar bene, poiché nel suo cuore di ragazzo sentiva che tutto il suo futuro dipendeva da quel momento.

Nella scena del convento, quando Amato, spada in mano, affrontò Manrico, qualcuno gridò: "Ammazzalo!" La battuta scatenò un pandemonio. Quando arrivò Di quella pira con il do di petto, che ha salvato tanti tenori, non si udì nessun do di petto. Invano Amato tra le quinte cantò quella nota al posto di Manrico: il pubblico aveva, sì, udita la nota di Amato, ma aveva anche udito il suoni inarticolati di Manrico. Con un urlo il pubblico inferocito si slanciò verso il palcoscenico per impadronirsi del tenore. Solo il sipario calato a precipizio lo salvò.

 

Amato sedeva nel suo camerino asciugandosi il sudore dalla fronte, Aveva rischiato, cantando un ruolo che non conosceva bene, e aveva trionfato. Ma non avrebbe mai più corso simili rischi.

 

Quando la gente vede un artista che canta con assoluta padronanza di sé, in qualunque situazione, farebbe meglio a non definire tale qualità un dono del cielo. La padronanza, naturalmente, viene di per sé dall'esperienza artistica: ma conservarla di fronte a eventi rovinosi è spesso una conseguenza dell'aver saputo superare difficoltà create dai colleghi.

A Napoli, un altro tenore - così come aveva fatto Manrico - offrì ad Amato l'eccellente opportunità di esercitarsi nella concentrazione. L'opera, questa volta, era l'Attila di Verdi. Il tenore scritturato, invece di squagliarsela, si era ammalato. A lui fu sostituito un altro tenore, di nome Brunetti, giacché, dopo una lunga ricerca, non si era trovato nessun altro. A quell'epoca, il suo temperamento gli aveva fatto toccare il fondo, ed era un cantante in rovina. Cantava solo quando si sentiva in vena. Era noto che lo scompiglio da lui creato alle prove aveva ridotto gli impresari all'esaurimento nervoso. Stufi dei suoi sbalzi d'umore, gli impresari lo abbandonarono. Quel giorno egli era contentissimo di cantare la parte di Foresto per un compenso di quattro dollari, oltre ad un buon pranzo. Il buon pranzo mandò in rovina la sua estrema occasione di riabilitarsi. L'umore spinse Brunetti a mangiar subito, e prima di cantare: di conseguenza, tutte le sue romanze furono gorgogliate. L'appetito ben soddisfatto non aveva lasciato spazio per la voce.

 

Ne conseguì, durante la rappresentazione, un baccano che può esser solo immaginato. Lottando contro di esso, il giovane Amato, che considerava quella rappresentazione importantissima, perché la sua carriera era appena iniziata, cantò dal primo all'ultimo atto, dal levarsi al calarsi del sipario. "Il cosiddetto temperamento artistico!" esclamò il baritono, quando ebbe raccontato la storia. " Mi fa orrore! Non ascolto mai quella parola senza che io pensi alle zaffate di vino mal digerito e di aglio che Brunetti mi sbuffò in faccia quel giorno durante i concertati".

Dopo aver cantato in tutta l'Italia meridionale, Amato andò in Germania come membro di una compagnia d'opera italiana. In alcune città, i critici lo proclamarono il più grande baritono vivente. Per meritarsi quell'elogio, aveva viaggiato in carrozze di terza classe, dormendo il poco sonno che gli consentivano i duri sedili di legno. Spesso cantava due volte al giorno, per una cifra equivalente a sessantadue dollari al mese. Più tardi, nella stessa nazione, ricevette un compenso di settecento cinquanta dollari a serata e infine firmò un contratto per cantare a Berlino, a Vienna e in altre città per millecento dollari a rappresentazione, contratto che purtroppo fu annullato a causa della guerra.

Durante quel primo soggiorno in Germania, quando si offriva la possibilità di una permanenza un po' prolungata in qualche località, Amato e la moglie prendevano casa e la mandavano avanti con semplicità. Amato si assunse il compito di fare la spesa. La signora Amato, nata in Cecoslovacchia, gli aveva insegnato a memoria alcuni ruoli in tedesco. Il linguaggio parlato, tuttavia, gli rimase sempre estraneo. Il ventesimo giorno dopo il loro arrivo, Amato uscì per comperare carne di vitello. Dopo pochissimo tempo rincasò, senza carne e fuori di sé per l'agitazione: e non riusciva a spiegare le cose, persino il suo italiano era diventato confuso.

Donna affascinante e intelligente, la signora Amato aveva - ed ha tuttora - inesauribili risorse calmanti. Per scoprire quanto grave fosse l'accaduto, si mise il cappello e andò col marito sul teatro della guerra. "Cosa c'è che non va ?" chiese ansiosamente appena furono giunti dal macellaio. Questi, ancora adirato, ribatté: "Gli ho chiesto se il vitello lo voleva con la zampa o senza. E più gli ripetevo la domanda, più lui si agitava. E poi ha urlato assai, cara signora. A sentirlo, faceva spavento. Ma questa volta gli perdono, perché non ho capito quel che diceva".

 

Pare che ai musicisti, i macellai appaiano offensivi, provocatorii. Anche Alma Gluck ebbe un'esperienza con uno di loro. In estate, lei vive a Fisher-Island. Se c'è bisogno di qualunque altro prodotto che non sia la sabbia, prende la nave e va a New London a comperarlo. Fermandosi in una macelleria per fare acquisti, trovò il negoziante rude e brusco. "Sa chi sono io?" - chiese indignata e, dopo una pausa, per ottenere un pieno effetto drammatico, aggiunse maestosamente: "lo sono Alma Gluck"."Beh, Alma, - rispose quello tranquillamente - "non ho mai sentito parlare di te".

Sono le piccole cose della vita che irritano l'artista di canto. Amato potrebbe svenire se una cuoca abbandonasse improvvisamente sua moglie, ma sul palcoscenico e di fronte ad un pubblico che urla, si può star certi che sarebbe capace di cantare splendidamente. La Patti fu in grado di continuare a cantare indisturbata dopo l'esplosione di una bomba che per poco non la uccise, ma il sibilo di un termosifone a vapore poteva provocare in lei una crisi di nervi.

Poco dopo il debutto di Amato alla Scala, la tragedia entrò nella sua vita: nel bel mezzo di una rappresentazione, la voce lo abbandonò. Durante i giorni che seguirono, dovette far fronte al bisogno economico. Due esseri gli rimasero fedeli: sua moglie e Toscanini. E per Toscanini l'impresa di tirar su il morale deve esser stata difficile, poiché avendo problemi di natura privata egli spesso sedeva immobile per ore con lo sguardo fisso su un punto della parete.

L'aver provato precocemente il bisogno e la sofferenza, accrebbe la statura artistica di Amato. Recuperata infine la voce, egli trionfò proprio sul palcoscenico sul quale l'aveva perduta. Poi fu ingaggiato per il Sudamerica. Lì cominciò con un compenso di tremilatrecento franchi al mese, e nella sua quinta ed ultima stagione ricevette settemilacinquecento franchi a serata. Di lì passò poi al Metropolitan.

La splendida e avventurosa carriera di cantante ha lasciato intatto il cuore di Amato. Non molto tempo fa mi ha detto. "E' da oltre vent'anni che sono lontano da mio padre e mia madre. Quando non canterò più, la felicità consisterà per me nel trascorrere con loro, a Napoli, gli anni che mi restano".

 

(Un particolare ringraziamento al Dott. Gian Paolo Nardoianni, che oltre ad aver tradotto il testo lo ha messo gentilmente a mia disposizione)

 

Copertina del libro
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Indice
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Foto dedicata da Pasquale Amato all'autore del libro William Armstrong
Foto dedicata da Pasquale Amato all'autore del libro William Armstrong

 

  

PASQUALE AMATO

"MODERNI MEDODI VOCALI IN ITALIA"

Tratto dal volume  "Great Singers onthe Art of Singing" - pp. 38 – 45

di James Francis Cooke

 Philadelphia, Theo. Presser Co., 1921

 

Traduzione dall’inglese di Gian Paolo Nardoianni (settembre 2011)

 

Pasquale Amato, per tanti anni primo baritono del Teatro Metropolitan di New York, è nato a Napoli il 21 marzo 1878. Fu destinato alla carriera di ingegnere e studiò all’ Istituto Tecnico Domenico [sic]. In seguito, dal 1896 al 1899, studiò al Conservatorio di Napoli con i maestri Cucialla e Carelli. Debuttò come Gérmont nella Traviata al teatro Bellini di Napoli nel 1900. Apartire da allora, ebbe enormi successi in Sudamerica, Italia, Russia, Inghilterra, Egitto e Germania. Al Metropolitan di New York ha creato i seguenti ruoli: Jack Rance nella Fanciulla del West, Manfredo nell’Amore dei tre re, Cyrano nell’opera omonima di Damrosch, Antonio nella Lodoletta, Napoleone in Madame Sans-Gene; alla Scala quello di Golaud nel Pelleas et Melisande.

Si è esibito in Sudamerica non meno di dieci volte. La sua voce è capacedi straordinaria sensibilità drammatica].

 

Quando avevo circa sedici anni, la mia voce era sufficientemente assestata da incoraggiare i miei amici e familiari a credere che potessi diventare un cantante. Questa, per un ragazzo italiano, è una scoperta che rende orgogliosi, perché il canto –specialmente il canto d’opera- in Italia è tenuto in così grande considerazione che naturalmente si guarda con impazienza e gioia ad una carriera nei grandi teatri del proprio paese e magari anche in quelli esteri. Di conseguenza, a diciotto anni fui ammesso al conservatorio, ma non senza molte condizioni, che dovrebbero riuscire di particolare interesse per i giovani americani che studiano canto. Gli insegnanti non mi accettarono subito come possessore di buone doti vocali. Si riconobbe che avevo inclinazione e talento per la musica, e mi si tenne in osservazione, cosicché si potesse stabilire se il conservatorio, finanziato dallo Stato, dovesse orientare la mia istruzione musicale verso lo studio del canto o in altra direzione. Questa è una delle differenze fondamentali tra l’istruzione musicale in America e l’istruzione musicale in Italia.

In America, un allievo di punto in bianco stabilisce di esser destinato a diventare un grande cantante d’opera, e immediatamente ingaggia un insegnante che lo renda tale. Il suo destino sarebbe potuto esser quello di diventare idraulico, avvocato o attore comico, ma ciò ha poca importanza se egli ha denaro e può permettersi un insegnante privato. In Italia, una simile “regìa” di talenti sarebbe considerata uno spreco per l’individuo e per lo Stato.

Naturalmente, il sistema italiano ha incontestabili difetti, poiché un corpo docente la cui capacità di giudicare sia scadente o prevenuta potrebbe causare danni gravissimi, scoraggiando il vero talento, come nel caso del grande Verdi al quale, quando aveva diciottoanni, il direttore del Conservatorio di Milano, Basili, rifiutò l’ammissione adducendo a motivo la mancanza di talento.Tuttavia, nella maggior parte dei casi, gli esaminatori sono persone abili ed esperte, e quando un allievo è stato tenuto in osservazione per un certo tempo, la probabilità di un errore di giudizio è bassissima. Di conseguenza, dopo aver trascorso due anni a familiarizzare con la musica attraverso lo studio della notazione musicale, del solfeggio cantato, della teoria,dell’armonia, del pianoforte, alla fine fui informato di esser stato selezionato per la carriera operistica.

Ricordo quel momento con grande gioia. Per me, significava una nuova vita, poiché ero sicuro che con l’aiuto maestri così prudenti, avrei avuto successo. Nel complesso, considero l’attuale sistema italiano assai saggio, perché non spreca tempo con gli incompetenti. Ho incontrato tanti giovani musicisti che hanno dato chiaro indizio di aver studiato molto, ma che sembrano privi di talento. E’ come se si volessero curare amorosamente insignificanti arbusti perché diventino grandi querce. Non c’è studio o cura capace di dar loro vero talento, se non lo posseggono già: perché allora sprecare il denaro dello Stato e del singolo? Per contro, in qualunque parte del mondo si trovi vero talento, lo Stato dovrebbe stanziare denaro perché possa essere coltivato, così come stanzia denaro per l’istruzione dei giovani.

La scuola vocale italiana.

Si è detto tanto sul vecchio metodo di canto italiano che, in certi ambienti, basta il nome persuscitare derisione. Nessuna disciplina è stata oggetto di altrettanta ciarlataneria. E’qualcosa che, in questo paese, qualsivoglia insegnante -buono o cattivo- può rivendicare [come propria]. Certo, ogni italiano è orgogliosissimo delle splendide tradizioni vocali italiane, dei secoli di idealismo [spesi] alla ricerca di una sempre migliore emissione del suono. Esistono naturalmente certi principi enunciati dai grandi maestri di canto del passato, che sono stati messi per iscritto e possono esser letti in quasi tutte le biblioteche delle grandi città americane. Ma è del tutto assurdo pensare che tali pubblicazioni costituiscano un metodo vocale che vada bene per tutti i casi.

Il buon senso dei vecchi maestri di canto italiani metterebbe in ridicolo un simile sistema. Il canto è innanzitutto un’arte, e un’arte non può essere circoscritta da alcun complesso di regole o di principi. L’artista deve innanzitutto avere una conoscenza estremamente approfondita di tutte le parti della tecnica relativa della sua arte, e deve adattarsi di volta in volta al particolare problema che gli si presenta. Perciò potremmo dire che, da un lato, il metodo italiano era un metodo e che, dall’altro lato, esso era assenza di metodo.

In realtà, il metodo italiano è costituito da migliaia di metodi, uno per ciascun singolo caso o problema vocale. Per esempio, se io dovessi cantare con lo stesso metodo che adopera Caruso, ciò non sarebbe affatto la miglior cosa perla mia voce, eppure per Caruso quello è il migliore dei metodi, altrimenti la sua voce non sarebbe in così splendide condizioni dopo anni di uso costante. Egli è la prova del suo metodo.

Direi che il maestro di canto italiano insegna, prima di tutto, con le sue orecchie. Ascolta, con la massima concentrazione possibile, ogni sfumatura di colore del suono, finché non viene emesso il suono ideale che egli ha in mente. Ciò spesso richiede mesi e mesi di pazienza. L’insegnante deve riconoscere le carenze di una voce e lavorare per correggerle.

Per esempio, io non ho dovuto mai lavorare sui miei acuti. Li emetto oggi nello stesso modo in cui liemettevo quando ero ragazzo. Per fortuna i miei insegnanti se ne resero conto, e lasciarono le cose come stavano. Probabilmente, il peggior tipo di maestro di canto è quello che ha schemi, o accorgimenti o principi teorici stereotipati, che devono esser seguiti volenti o nolenti, cosicché le teorie del maestro possano essere confermate. Con un simile insegnante, nessuna voce può dirsi alsicuro. Le voci più dotate in natura sono [in tal modo] costrette a seguire qualche metodo“brevettato” solo perché il maestro è stato formato secondo quell’unico metodo, non ha esperienza, e non ha sufficiente buon senso da lasciare che la natura porti a compimento da sola la sua opera.

Entrambi i miei insegnanti sapevano che le mie note acute andavano benissimo, e così l’esercitazione fu orientata verso le note medio-gravi. Mi fecero esercitareper più di dieci mesi con le scale e le note tenute, finché la soluzione di continuità che si produceva sul mi bemolle al di sopra della chiave di fa non fu saldata alle note sottostanti e a quelle soprastanti, sicché io potevo cantare su tutta la gamma senza che ci fosse alcuna sgradevole soluzione di continuo del suono. Mi si fece esercitare dapprima sulla vocale “a”. Sento dire che i più autorevoli testi di canto americani fanno riferimento alla “a” così come viene pronunciata in father. A me questo sembra un suono troppo incolore, privo di autentica risonanza. La vocale che fu usata nel mio caso in Italia, e in centinaia di altri casi che ho osservato, è una vocale leggermente più ampia, a metà tra la “a” di father, e la “a” di law. Non è un suono cupo, e tuttavia non è il suono che ha la “a” in father. Forse la parola “doff” o la prima sillaba di Boston, se pronunciate correttamente, danno l’idea giusta.

Non conosco abbastanza la didattica vocale americana per farne una critica intelligente, ma mi chiedo se i maestri di canto americani riservano a certe parti della preparazione tecnica la stessa attenzione riservata dai maestri italiani. Spero che lo facciano, perché considero la cosa veramente necessaria.

Prendiamo il caso dello “staccato”. Eseguire con la voce un buon“staccato” è una cosa veramente difficilissima –difficile, quando è eseguito correttamente, cioè con voce intonata, e con ogni nota chiara, distinta e, al tempo stesso, senza durezza o rigidità di suono. Mi ci vollero settimane per acquisire il giusto modo di cantare una frase come "Un dì quando le Veneri", dalla Traviata, ma furono settimane assai ben spese. (Vedi esempio musicale n°1) La precisione dell’attacco in questa frase musicale non è per nulla facile. Tutti son capaci di cantarla, ma ciò che fa la differenza è come viene cantata. Il pubblico ha idee assai singolari sul canto: per esempio, sarebbe stupito nell’apprendere che per me Trovatore è un ruolo molto più difficile da cantare –e da cantar bene- che non il Parsifal o il Pelleas et Melisande. Ciò dipende in gran parte dal [fatto che il Trovatore esige] maggior dispendio di voce e dalla sua ricca scrittura vocale. L’opera di Debussy, per meravigliosa che sia, non richiede nemmeno lontanamente l’impegno vocale del Trovatore. Una volta che il cantante è divenuto esperto, l’acquisizione di nuovi ruoli riesce assai facile.

La difficoltà principale è la necessità di esercitare quotidianamente la voce, finché essa non abbia ogni giorno la medesima qualità.

Ciò si ottiene solo con un’attenzione incessante. Ecco alcun iesercizi che faccio ogni giorno col mio accompagnatore. (Vedi esempio musicale n°2).

 

 

 

Esempio musicale n°1
Esempio musicale n°1
Esempio musicale n°2
Esempio musicale n°2